Seguivo delle lezioni sulla religiosità popolare e non ho potuto fare a meno di pensare al Minhag. La parola Minhag ha la sua radice nel verbo nahag che significa guidare, condurre (in ebraico moderno è così chiamato il conducente), ed indica un ben determinato modo di fare, un uso, sia specifico per situazioni particolari che generico, un sistema di comportamento. In questo il Minhag si avvicina fortemente alla religiosità popolare quando il comportamento dei nostri rabbini, dei nostri maestri, porta a credere che si sia davanti ad un fenomeno in via di estinzione, un fiore secco a cui è venuto ormai meno l'humus culturale che lo nutriva, un fossile vivente destinato a scomparire per la volontà di tutti di adempiere alle Mitzvoth così come da Israele ci viene indicato.
Certe volte, di fronte all'attuale orientamento rabbinico, si tende a rivedere lo status del Minhag, non più integrato nell'attualità culturale e nella vita quotidiana ma ospitato nella storia del popolo ebraico. Tutto questo si ritrova nelle tante pubblicazioni recenti, nei Siddurim troppo pesanti per essere usati quotidianamente ma meravigliosi da tenere nella biblioteca in noce del salotto.
Il Minhagh, la tradizione ebraica parallela alla Halachah (le regole codificate nei testi normativi), è la base dell'Halachah stessa, frutto della tradizione ed in molti casi superiore come importanza tanto da annullare regole codificate in favore di tradizioni millenarie. Ecco che Talmud, Minhagh, Tradizione e Halachah si intersecano ed intromettono l'uno nell'universo dell'altro in un ginepraio ampio e variegato in cui non si possono usare come sinonimi ma neanche scindere come concetti.
Questa condizione di Ospite che l'attuale rabbinato sta proponendo fa si che i Minhaghim siano studiati in modo accademico, affrontati con curiosità anzichè vissuti quotidianamente con amore e partecipazione emotiva.
Ogni persona che aggiunge una singola Mitzvah alla sua vita porta il bene nel mondo: ben vengano coloro che decidono di adempiere le Mitzvoth e studiare Torah, ben venga una rabbanuth attenta ai bisogni di chi è da poco tornato ai precetti, ben vengano cambiamenti alle abitudini passate ma nel rispetto della nostra storia. Perché il popolo del Libro, il popolo delle radici forti e del cuore fiero non può e non deve rinnegare se stesso nel tentativo di rinnovare una ortopratica svuotata dell'Emunah, la fiducia in D-o che ci ha fatto sopravvivere e crescere, anche culturalmente, fino ai giorni nostri.
Cultura del razionalismo, tradizione di Kabalah e capacità di essere se stessi rinnovandosi nonostante tutto sono le chiavi storiche dell'ebraismo italiano, capaci di aprire tutte le porte sin dai tempi dell'impero romano, dell'agnello pasquale fuori da Gerusalemme, dei Ghetti.
Il Minhag è passato pressochè indenne attraverso il fuoco di sbarramento delle persecuzioni e sembra ora poco sensibile alle sirene del neo-ebraismo ortodosso, quel pensiero dei religiosi di nuova generazione che richiedono a gran voce l'adempimento alle tradizioni del rabbinato di Israele senza essere coscienti del background culturale della propria comunità.
Il Minhag, al contrario e nonostante tutto, ci appare ancora come una realtà che va per la sua strada e procede con le proprie forze come ha fatto per secoli, senza farsi eccessivamente condizionare dall'esterno. In questo senso ci appare dotato di una modernità paradossalmente più attuale delle odierne discussioni rabbiniche circa il posizionamento dell'ebraismo ortodosso all'interno dell'ebraismo mondiale poliedrico ed in continua evoluzione.
Una delle caratteristiche dell'uomo moderno è la velocità di adeguamento alle mutate condizioni esterne senza negare se stessi e la propria storia e l'ebraismo italiano, da sempre sinfonia di voci contrastanti ma in armonia, ha mostrato come può essere forte la multiforme realtà ebraica quando mantiene le proprie tradizioni integrandole nei grandi discorsi sulla globalizzazione e sul villaggio globale.
Relegare ora il Minhag alla periferia della vita quotidiana non è quindi una rilettura, che poi sarebbe una negazione, di secoli di storia ebraica?
Come l'Assemblea rabbinica, anche chi reagisce agli eccessi del rabbinato ortodosso sta facendo proprio questo: nega la tradizione negando secoli di storia o, peggio ancora, cercando di riscriverli in chiave moderna, guardando al passato e giudicandolo con gli occhi del presente.
Il Minhag invece, da sempre, ha una corsa relativamente autonoma nei confronti di una religiosità istituzionale che, formalmente conclusasi con la chiusura del Sinedrio, si cerca oggi di far rivivere senza le basi normative e sociali che sarebbero necessarie.
Il Minhag mantiene tuttora una corsa a briglie allentate perché può coniugare a modo proprio la fedeltà all'istituzione con la libertà e la spontaneità di movimento: un soggetto dotato di una propria identità, portatore di valori e di energie che la cultura religiosa dominante e la stessa religiosità istituzionale stanno cercando di mortificare anzichè rapportarcisi come ad un interlocutore per un proficuo dialogo culturale.
Ma allora, perché siamo ancora qui a parlare di Minhag? La risposta è semplice: perché i fatti dimostrano che questa realtà non è affatto sul viale del tramonto, non è un fossile da assicurare ai musei del folklore ma una realtà viva e vitale, un organismo capace di auto-immunizzarsi di fronte alle aggressioni esterne. Perché se l'ebraismo è sopravvissuto millenni lontano da Israele, aspettando l'anno prossimo a Gerusalemme che non arrivava mai, non lo deve all'attuale rabbanuth di Gerusalemme ma alle decine, centinaia di Minhaghim che hanno continuamente rinnovato, trasmesso, rinforzato l'ebraismo e lo spirito ebraico.
Ho sentito dire, da più parti, dai nuovi religiosi, che il Minhag è la religiosità dei poveri: un'affermazione che lo avvicina tanto e troppo alla religiosità popolare cristiana e che somiglia all'idea che il Minhag sia una religiosità povera. Che sia la religiosità dei poveri può esser vero solo in senso molto largo: il Minhag è parte della vita quotidiana di tutte le classi sociali ma si percepisce meno perché il moderno aumento di benessere influisce di più sulla religiosità istituzionale che non sulle abitudini familiari.
E di certo non è una religiosità povera. Mi vengono in mente Rav Nello Pavoncello che lo ha insegnato alla comunità ebraica di Roma con tanti e tutti i suoi gesti e Rav Elio Toaff che lo ha trasmesso ad una generazione di Rabbanim che sono ora nelle piccole comunità d'Italia e nelle scuole rabbiniche del mondo.
Oggi purtroppo, nonostante queste grandi figure, stiamo assistendo ad una svalutazione del Minhag di Roma, il più antico del mondo, a causa di una ecclesiologia che vuole privilegiare gli elementi istituzionali e gerarchici, alla ricerca di una nuova sobrietà liturgica e pratica, invece che difendere le tradizioni di fronte a chi le contesta. Sto pensando ad esempio all'abolizione della chiamata a Sefer padre-figlia durante il Bat-Mitzvah per problemi di purità (ma i concetti di purità ed impurità non sono bloccati in attesa del Santuario?): dai motivi che stanno alla base, piuttosto che dalle sole "nuove" limitazioni, risultano quindi sia gli scopi, portare i fedeli ad una pratica più "pura" perché conforme alle abitudini di Gerusalemme, sia i risultati, allontanare i tanti che non si adeguano ai nuovi modi di adempiere gli stessi precetti seguiti fino ad oggi secondo la tradizione del Minhag.
Bisognerà arrivare agli eccessi perché la rabbanuth si renda conto dell'eccessività di alcune sue decisioni? Se il ravvedimento non è arrivato con il fiorire, anche in Italia, di ebraismi altri, Lev Chadash in testa, dobbiamo aspettare che si svuotino le comunità ebraiche ortodosse della diaspora? Quando un padre dovrà organizzare da solo il Minian (dieci ebrei maschi riuniti insieme, in grado di leggere la Torah e con un Sefer a disposizione) per poter salire a sefer con la propria figlia e, non essendo in grado, si rivolgerà ad altre congregazioni, sarà ancora disposto a pagare annualmente le tasse della comunità ortodossa? Per quanto tempo ancora il ricatto del "posto al cimitero" riuscirà a garantire l'iscrizione alla comunità ortodossa? E non è grazie a quegli iscritti ed alle loro tasse che esistono i servizi del rabbinato ortodosso?
Non è sempre stato così, fino a qualche anno fa il rabbinato di Roma difendeva con forza le proprie tradizioni mantenendo la testa alta e le spalle dritte mentre oggi stiamo assistendo ad un pericoloso percorso di sudditanza nei confronti del rabbinato di Gerusalemme che ci trascina sempre più in basso.
Riflettendo sull'approccio metodico alle Mitzvoth che va per la maggiore, mi accorgo che non tiene conto delle strutture caratteriali che l'ebreo eredita dalla propria famiglia durante lo sviluppo preadolescenziale. Questo approccio metodico, arrivato nell'ebraismo ortodosso italiano dai tanti "Studiosi di ebraistica" in qualche modo laici, ignora totalmente un aspetto tipico dell'essere ebrei: la dualità tra la Mitzvah della conversione e gli obblighi di ostacolare chi ha intenzione di convertirsi.
Il convertente assume quindi un duplice ruolo da analizzare ed affrontare con coraggio e serietà: tecnicamente non è propriamente ebreo fino alla decima generazione, così come stabilito dalla Legge, in quanto non può ricoprire alcuni ruoli o mansioni (ad esempio non può essere sempre parte di un Beith Din completo) proprio per far si che, con il passare delle generazioni, assuma quelle strutture caratteriali transgenerazionali che fanno parte dell'essere ebreo. Allo stesso tempo, per agevolare tale situazione (nonostante da più parti si sostenga che i convertiti fino alla 4 generazione debbano sposarsi solo tra di loro) all'ebreo è fatto divieto di ricordare al convertito di essere tale e di informare terzi.
Ed era anche così che, a mio avviso, i rabbanim davano modo ai convertiti di assimilare le tradizioni e preservavano il concetto stesso di Minhagh. Ma oggi?
Fino a quando i Minhaghim sono stati orientati da un rabbinato coerente, cosciente delle proprie responsabilità e dei limiti, nelle tradizioni l'ebreo ha trovato e ritrovato se stesso, riconoscendoli propri ed adempiendo anche più di quanto volesse razionalmente: si sono costruiti così momenti e grandi atti di coraggio, generosità e sacrificio fino all'eroismo.
Al contrario, una tradizione lasciata a se stessa, ebrei che si sentono fuori dall'ebraismo ortodosso e abbandonati dai propri maestri, danno vita, per quell'impulso tutto ebraico di aggregazione, a nuove comunità, a congregazioni più o meno lontane dall'ebraismo che finiscono per mettere in pericolo non solo la comunità ortodossa ma l'ebraismo tutto[1]. La religiosità popolare è incentrata sul vissuto, esposta al rischio di restare impantanata in esso, incastrata nel circolo chiuso bisogno-risposta.
Da qui la tendenza proiettiva, la tendenza cioè alla costruzione soggettiva degli adempimenti ebraici in base alle tradizioni conosciute e particolari della propria famiglia: tendenze che possono portare a forme magiche, superstiziose, oppure ad un provvidenzialismo utilitaristico e deresponsabilizzante, ad una religiosità alienante. Alienazione che viene poi esportata, come più volte si è visto, a realtà esterne all'ebraismo così che personaggi più che discutibili diventino maestri di una improbabile Cabbala o Kabalà o Quabbalà o QuiQuoQua.
La Kabalah è indicata per chi ha solide basi di ebraismo ed una vita familiare completa: prima di rivolgere l'attenzione ad essa, bisogna studiare approfonditamente la Torah ed i suoi tanti commenti, ovviamente solo in lingua originale, si passerà poi allo studio della Mishnah, indi il Talmud, poi i libri successivi di Maimonide, in particolare il Mishnè Torah. Una volta completata questa prima serie di studi, si potrà rivolgere la propria attenzione alla guida dei perplessi di Maimonide e quest'ultimo testo, se le basi sono sufficientemente buone, aprirà la strada della Kabalah. Questo mi è stato insegnato nel Collegio Rabbinico di Roma, allora sotto la guida di Rav Elio Toaff.
Quanti pseudo-maestri delle scuole mistico/esoteriche moderne hanno fatto questo percorso? e quanti rabbini anche ortodossi usano qualche nozione di Kabalah a loro uso e consumo al solo scopo di rendere più "interessante" una lezione od un discorso al pubblico? e questi rabbini si rendono conto dei rischi di un simile comportamento?
La consapevolezza dei rischi di certo non cancella i valori, aiuta anzi a tutelarli e proprio questo è il compito a cui è chiamato oggi il rabbinato italiano: le religioni offrono alla religiosità personale un alveo oggettivo comunitario, un recipiente normalizzato ammesso per riconoscimento collettivo e quindi socialmente rassicurante.
Non sempre però la religiosità riesce a trovare la sua sede appropriata ed ecco che il singolo inizia a creare il proprio modo di essere ebreo cercando al contempo il riconoscimento collettivo. Questa può essere considerata la base dei tanti "nuovi" ebraismi nati da quando la presenza del rabbinato non è più nel popolo ma cerca di imporsi sul popolo. Il popolo, è bene ricordarlo, ha lo strumento della rimozione che gli permette di liberarsi dal giogo di un rabbino quando non è più in linea con l'evoluzione della comunità[3].
L'ebraismo rabbinico italiano si vuole talmente fossilizzare su posizioni non sue ma imposte da Israele trasformando lo studio della Torah, intesa in senso ampio, in un complesso esercizio di logica formale? È così sicuro di voler intraprendere questa strada anche se ciò significa costringere le comunità ebraiche ad uno scontro con il rabbinato?
Prendendo spunto, come sempre ha fatto, dalla propria storia e dal passato, dall'illuminismo in poi, l'ebraismo postbellico ha trovato nuova forza riconoscendosi nel sionismo attivo: non si trattava più di sussurrare l'anno prossimo a Gerusalemme con il cuore in lacrime e sperando. Era il momento del coraggio di affrontare i problemi pratici, di vincere una vera guerra contro un nemico reale, armato e molto più forte. Un nemico che non vuole solo vincere, vuole distruggere il popolo ebraico nella sua incarnazione più tangibile, lo stato di Israele.
A distanza di 50-60 anni stiamo facendo i conti con gli effetti di questo coraggio: nonni, genitori, fratelli che all'indomani della fine della II Guerra Mondiale si sono ritrovati, stremati e dispersi, per raccogliere altri 50 Kg d'oro da destinare questa volta allo stato ebraico hanno influenzato e continuano ad influenzare le nostre scelte, in ogni campo, anche religioso-pratico.
Ma è giusto sacrificare secoli di Minhaghim[2]? Si tratta veramente di "ritorno" alla religione? Che autenticità può avere una religiosità che nasce dalla simulazione e non dal recupero della propria storia in una struttura, come quella ebraica, dove il passato è sempre la radice da cui attingere la forza di affrontare il futuro? Stiamo cercando di trasformare secoli di ebraismo in un pezzo di una stanza di un museo? Menachem Emanuel Artom diceva di non amare i musei, era spaventato da ciò che sarebbe potuto accadere se l'ebraismo si fosse museificato, cosa direbbe vedendo oggi decine di piccoli centri ebraici storici che vendono oggetti sacri, luoghi importanti e storici affinchè vengano trasformati in musei? Alle comunità che allontanano i propri membri, quanto denaro è necessario per sopravvivere come enti turistici?
L'ebraismo è diventato turismo? è questo il motivo per cui ad agosto, a Milano, sono aperte fino ad 8 sinagoghe con riti molto molto simili, pressochè uguali, e tutte con meno di 10 partecipanti maschi? è il trionfo dell'individualismo sulla collettività, l'annullamento del concetto stesso di Am Israel: perché non unire le forze e svolgere un buon servizio per se stessi e per gli altri?
In un momento storico in cui l'ebraismo va di moda, le conversioni e le richieste di conversione sono in continuo aumento, il rabbinato è chiamato ad una nuova sfida: preservare gli ebrei ed i loro Minhaghim portandoli ad affrontare la propria storia e non a rinnegarla, preservando le Mitzvoth e non trasformandole in una ortopratica che poco ha a che fare con quel modo di vivere, di essere che ha accompagnato gli ebrei nei secoli attraverso tutte le prove a cui D-o ci ha sottoposto.
Il rabbinato ortodosso italiano è pronto? saprà difendere i propri Minhaghim ed affrontare questa nuova sfida?
Joram Marino - Marzo 2005
Note successive alla pubblicazione
[1] - 16/05/2005: è necessario puntualizzare che è un certo tipo di atteggiamento delle persone ad essere pericoloso ed a mettere in pericolo l'ebraismo tutto, non un gruppo in quanto tale.
[2] - 18/03/2010: Non credo di aver precorso i tempi, ho solo guardato più in là del mio naso, ma i fatti mi hanno dato ragione: i Minhaghim italiani continuano ad essere ignorati o, peggio, aboliti unilateralmente su ordine di questo o quel rabbino che vive in Israele .
[3] - 26/05/2010: Purtroppo siamo arrivati al passo decisivo: la comunità di Torino (con sentenza definitiva confermata dall'UCEI) ha rimosso il proprio Capo Rabbino per incompatibilità ambientale perché ha cercato di imporsi sugli iscritti invece che affiancarli e guidarli come un maestro. È la prima volta che questo avviene in Italia.