Trovare tratti ebraici, vale a dire conformi all'origine dello scrittore, nelle tre incarnazioni dell'eroe unico che Svevo ci ha dato nei suoi romanzi, non è impresa facile. Si tratta a mio avviso di un ebraismo sotterraneo, pressochè ignoto anche al Nostro ed è forse questo che ha contribuito a sviare la critica, eccezion fatta per uno studioso, Giacomo De Benedetti, che ha intravisto, nel suo mirabile saggio Svevo e Schmitz, alcune caratteristiche piuttosto interessanti che vorrei analizzare.
Nel saggio si prende in considerazione un particolare tipo d'ebreo, quel moderno occidentale forgiato da tanti secoli di diaspora: è ovvio che nella lunga età dei ghetti sia mancata al popolo d'Israele qualsiasi forma di vincolo con le altre popolazioni, di quelli che possono venire solo da un comune passato. è per questo che, cadute le sbarre, ogni appartenente al popolo si sentì in obbligo e nella condizione di essere attivamente partecipe della storia e della civiltà nella quale si trovava.
Non si trattava ovviamente di cancellarsi nell'altro poiché il popolo che ha storicamente dato al mondo D-o, la morale, la Bibbia, i profeti, non può a nessun patto abdicare a se stesso; proprio in quest'ottica non mi pare del tutto privo di fondamento il sostenere che Israele non sia mai stato con il suo tempo: certo non lo era Abramo di fronte alla Caldea idolatra nè Moseh che fece prevalere su un paese come l'Egitto, sempre in ritardo di una piramide, un popolo che professava il sabato, giorno del Signore nel quale non si poteva lavorare; non lo erano i maccabei in rapporto alla Grecia invadente nè Gesù che parlava di uguaglianza ai più grossi fornitori di manodopera gratuita dell'antichità: per questo, anche se lo volesse, l'ebreo non potrebbe cancellarsi e nella realtà non l'ha mai voluto. Una cosa è l'assimilazione, un'altra è l'aspirare ad essere accolti senza sottintesi e senza riserve, da pari a pari.
Ed è proprio questo che è mancato: non è mai venuta meno la tendenza a considerarlo diverso; in un mondo nel quale ci si avvia sempre più rapidamente verso quel fenomeno che va di moda chiamare villaggio globale, si è parlato con sospetto di un'arte, di una musica, di una filosofia e persino di una logica ebraica. Non meraviglia certo che in un clima tale possa nascere un ebreo che si senta ferito per non essere compreso per quello che è, o peggio, per esserlo per quello che non è: tanto più che se si potesse leggere nel suo cuore, vi si troverebbe una ricca vena d'indulgenza, fin troppo comprensiva, che a volte non viene meno del tutto neppure nell'ora tragica nella quale gli altri diventano persecutori. Per questo egli, tanto più soffre, quanto più sente, come il personaggio più popolare di Kafka, gravare su di sè, con la forza di un incubo, un senso di diffidenza anonima, tanto inafferrabile quanto implacata. E fa di tutto per liberarsene sottoponendo se stesso, prima di ogni azione, alla più strenua delle indagini, diretta ad accertare se ci sia in lui qualcosa che possa giustificare questa falsa immagine.
È un'analisi sempre più spietata che raggiunge i limiti dell'animo, scrutati nelle loro sfumature più capillari, negli atteggiamenti più alieni al contesto. così l'atto si consuma nello spirito prima d'esser compiuto e restano inattive quelle misteriose e uniche virtù dell'istinto dalle quali sgorga lo slancio vitale. Perciò quando le cose sembrano attestargli la loro indifferenza ostile egli tenta di correggere la realtà col sogno, torna il vecchio male del ghetto: vuole correggere, dandole un altro volto, la dura vicenda della sua vita con l'illusione. Questa però, invece di liberarlo, lo imprigiona perché non è sorretta dalle forze dell'istinto e pertanto in lui anche il fervore dell'immaginazione diventa una ricchezza inerte, come sono ricchezze inerti la sua provvista di simpatia umana e lo spericolato acume della sua analisi che non può presentare a chi lo circonda per non incappare nei malintesi sopracitati.
Per tutto questo egli non potrebbe essere più disarmato verso la vita. Stenta a convivere con gli altri perché, privo com'è di slancio vitale, non sa dir loro la parola che ci vuole, nè può convivere con se stesso perché la sua coscienza troppo lucida finisce col disgregarsi, così che più si cerca e meno si ritrova.
Ed è proprio questo che affiora, senza che lo scrittore se ne renda conto, nella pagina di Svevo. E non è un caso che, quando s'affacciò al suo spirito Alfonso Nitti, la prima incarnazione del suo eroe, egli, in pieno stato di grazia, abbia voluto intitolare il romanzo Un Inetto. Non è neppure un caso che egli abbia dato al suo secondo romanzo il titolo di Senilità: titolo che egli difese accanitamente, allorchè Valery Larbaud gli suggerì di cambiarlo. Un cambiamento gli pareva una mutilazione. Quel titolo lo aveva guidato ed egli lo aveva vissuto.
Per conferire maggior rilievo a questo suo personaggio, di cui ormai conosciamo l'origine segreta, gli ha dato per antagonista, quasi sempre in più esemplari, una creatura di tutt'altra origine che non si vede mai vivere come il protagonista, ma che anzi si acceca volontariamente più che può. Questo suo antagonista, è visto dall'eroe sveviano con nostalgia e invidia per la risolutezza che ha ragione d'ogni scrupolo e per la sicurezza disinvolta di sè, anche se quest'ultima maschera qualcosa d'ignobile e d'impuro. Questo fascino è così intenso che, anche quando riscontra quelle doti in un avversario, volte a suo danno, il suo risentimento rimane disarmato e in queste intrepide bravure egli ravvisa i suoi paradisi perduti.
I tre romanzi di Svevo sono, ognuno a suo modo, la storia poetica di questa vita sbagliata: è sempre lo stesso caso, ma con tre sbocchi diversi: tragico il primo, patetico il secondo, umoristico il terzo; tre motivi, in ognuno dei quali s'avverte, arcana e familiare, la presenza d'Israele.
Incarnandosi in Alfonso Nitti, l'eroe di Svevo è colto nel fiore della giovinezza: dal paese nativo è capitato, non si sa bene perché, a Trieste, e ha trovato impiego alla banca Maller, un impiegato qualsiasi, irriducibilmente diverso dagli altri per sensibilità, per educazione mentale, per una disperata disposizione a sognare la vita più che a viverla.
C'è indubbiamente in lui una superiorità di pensiero rispetto ai suoi colleghi ma è tutto pensiero inerte e non può essere altrimenti poiché, se questo pensiero agisse, non farebbe altro che perturbare. Il suo ideale dello studio, se per un verso troppo presto si è dileguato, causa i sogni della giovinezza, per l'altro però non si è estinto abbastanza da non turbargli la sua grama esistenza d'umile impiegato. Le reminiscenze classiche gli guastano il lavoro d'ufficio, egli declama le lettere che il suo superiore gli dà da fare, con un ritmo di sapore letterario in cui, se la letteratura ci guadagna poco, anche minori sono i vantaggi per le scritture commerciali.
Eppure, quasi a scherno della sua inettitudine, la vita gli elargisce un'avventura che tutta Trieste gli potrebbe invidiare: forse perché è così diverso dagli altri, egli fa breccia nel cuore di Annetta Maller, la figlia del suo principale, conquistando quella magnifica creatura che è la sua antitesi perfetta: armata, come meglio non si potrebbe, per vivere e per godere. è proprio in questa conquista che egli si perde poiché è la prova del fuoco del suo scompenso, della sua disarmonia: è un amore che egli ha vissuto troppo nel suo cervello, a cui non lo chiama nessun impulso sincero; vi è arrivato per seduzione dei sensi, per certe suggestioni che hanno sempre presa sui deboli, per un'oscura rivalsa del suo destino fallito: tutto c'entra, meno l'istinto. Dove dovrebbe accecarsi, acquista invece una lucidità che lo allucina e in queste condizioni, per agire, ha dovuto costringersi: da timido, è diventato audacissimo per atto d'autorità, è stato un volontario dell'amore, come quando, in una imbarcazione sbalestrata dalla procella, era stato un volontario del coraggio.
In onta all'esaltazione morbosa che lo ha fatto vivere per giornate intere in un sogno continuato, ha agito con una freddezza di calcolo da degradare il più provetto dei seduttori: ha provato un moto di dispetto perché Annetta, sedutaglisi accanto, si è trovata per combinazione in una posizione poco adatta ai suoi piani e si è costretto, lui d'ordinario così fine, alla brutalità. Naturalmente la conquista non gli da altro che la cosa più logica: non prova neppure quella calda ondata di tenerezza che viene dalla gratitudine e che forse è il meglio che l'amore possa darci.
Alle quattro del mattino Annetta l'accompagna alla porta che dà sull'esterno e, appena questa si richiude dietro di lui, egli s'arresta a seguire, con il solito gusto dell'osservatore trucido, lo strisciare lento delle pantofole sulle scale; poi si incammina; e quando si sente chiamare dalla fanciulla che dalla finestra gli fa segno di saluto, risponde agitando il cappello, ma solo per un gesto automatico, perché si ricorda che così si usa in amore. Allontanandosi, per vincere il suo profondo malessere, tenta invano di canticchiare una canzonetta: il vuoto delle vie sotto il cielo violaceo triestino si intona con il vuoto del suo cuore, e qualche ora dopo la sua padrona di casa lo vede così accigliato che gli domanda se abbia perso al gioco. La verità è che egli ha ora l'impressione che quell'amore non sia suo, che l'abbia rubato.
Di qui si spiega la sua condotta successiva, il matrimonio con Annetta gli potrebbe offrire la ricchezza con tutti i suoi miraggi, ma egli non fa un passo per arrivarvi anzi pare che faccia di tutto per lasciarselo sfuggire: al momento buono lascia la città per andare a trascorrere qualche tempo al suo paese. Mai come ora mi pare appropriato il raffronto che un tale, che lo conosce bene, ha fatto di lui, durante una gita in barca, con un gabbiano che passava sulle loro teste ad ali tese: al gabbiano quelle ali, così sproporzionatamente grandi rispetto al cervello piccolo, servono magnificamente per piombare sulla preda. Anche Alfonso ha avuto dalla natura le ali, ma sono ironiche e servono soltanto per rannicchiarvi la testa e fare dei voli poetici.
La sua inettitudine fa stranamente riscontro con quella dimostrata da un altro sognatore classico del ghetto, in una occasione molto simile a questa. Non può cioè non venire in mente Lassalle, quando a Ginevra, mentre Elena Von Donniges lo supplicava convulsa di portarla via, egli, sognando una scena da commedia eroica in cui lui, ebreo seduttore, dovesse recitare la parte del cavaliere senza macchia, la riconsegnava, in attesa del matrimonio, alla madre, lasciando così che la fanciulla, addolorata e offesa da quell'incomprensibile ripudio, cadesse facile preda delle blandizie e delle minacce dei familiari che la riconducevano al principe suo fidanzato.
E anche qui il caso asseconda l'errore di Alfonso: mentre egli partiva ignaro da Trieste, già era in viaggio un telegramma speditogli per richiamarlo al letto della madre, malata senza speranze: egli si trattiene al villaggio un mese. L'infanzia, l'adolescenza, rivissute col solito stile, non leniscono il suo male e anzi si accresce la disarmonia perché la madre muore e nel frattempo Annetta, che egli ha lasciato esposta ai consigli dei parenti, si è fidanzata; ecco che la vita ora gli tende uno dei suoi soliti agguati: se quell'amore è stato un furto, gli pare che ora gli sia offerta l'occasione d'espiare. Naturalmente egli sfugge, ancora e sempre, a se stesso e infatti, volendo darsi una prova della vittoria su tutti gli egoismi, egli sacrifica una parte cospicua di quel poco che possiede, per salvare la figlia della sua padrona di casa dal disonore; ma solo per scoprire che desidera tanto la riconoscenza che fa di tutto per accrescerla. E proprio mentre più gli pare di essere superiore all'abbandono di Annetta, s'accorge che c'è in lui qualcosa che contraddice a questa superiorità: forse non è immune da gelosie, da risentimenti di vanità offese; forse, tanto Annetta si allontana da lui, quanto lui le si avvicina.
Ma il peggio accade nei suoi rapporti con l'ufficio: anche se ora gli viene meno la stima dei capi, anche se non si curano di nascondergli la loro antipatia e il loro disprezzo, anche se lo umiliano a sangue, egli sogna di vivere imperturbato, di lavorar tanto anzi da rialzare le sorti della banca. Deve però subito accorgersi di aver presunto troppo di se: egli non può vivere se non gli riesce di togliere la disistima di cui è circondato; affronta il vecchio Maller e ottiene, come sempre, l'effetto contrario. Gli pare sulle prime d'aver vinto perché il vecchio recede da un provvedimento troppo brusco, che aveva preso contro di lui, ma subito dopo, durante il secondo colloquio, capisce che il vecchio ha ceduto solo perché ha avuto paura di un ricatto da parte sua, il seduttore di sua figlia, e a questo punto la sua inettitudine diventa iperbolica: per non rimanere sotto il peso di un sospetto così oltraggioso, per aver il modo di dar le spiegazioni che lo devono riabilitare agli occhi del padre e forse anche agli occhi della figlia, scrive ad Annetta stessa pregandola di accordargli un colloquio in un luogo solitario. Tutto ciò pare fatto apposta per confermare nella fanciulla e nei suoi familiari le supposizioni più atroci a suo riguardo e infatti al convegno, anzichè colei che attende, arriva il fratello di lei, un odioso bellimbusto che ha l'incarico di ucciderlo o almeno di provocarlo. Ci riesce costringendo Alfonso al duello.
Il male segreto della sua tragica esistenza gli si rivela: forse perché è sfuggito sempre a se stesso, è sfuggito sempre anche agli altri e non è mai stato compreso: lui che ha capito, e scusato forse, tutti, anche quelli che l'hanno offeso, anche la sua padrona di casa che gli voleva appioppare la figlia sedotta e abbandonata, non è stato capito mai da nessuno. Tutta l'incomprensione di cui nei secoli è stato circondato Israele è con lui ma, almeno una volta, vuol essere compreso: per questo gli pare che sia piccolo prezzo togliersi la vita. Benchè inizialmente voglia lasciare una lettera per Annetta, alla fine non resiste alla tentazione di chiudersi nella sua sofferenza piena di schivo pudore: anche questo è un tratto della stirpe, il gusto di soffrire in segreto l'incomprensione altrui.
Sennonchè Alfonso Nitti ha a sua disposizione il sogno ed egli attribuisce alla sua rinuncia suprema la virtù di un'eloquenza irresistiva: Annetta si persuaderà che egli non è il ricattatore che pensava e un giorno, proprio come usava al tempo della lirica d'amore, come pensava Messer Francesco di Madonna Laura, l'amata spargerà fiori e lacrime sulla sua tomba. Vissuto come un fantasma, come tale si dilegua, se ne va come il giovin signore del ghetto di Venezia, ultimo dei sognatori di Zangwill in Had Gadià. Entrambi, d'autorità, cercano scampo là dove tutto si può capire.
Emilio Brentani, la seconda incarnazione dell'eroe sveviano, ci si presenta trentacinquenne, ma porta in se una tara di irreparabile vecchiezza: come al solito, la superiorità dello spirito è quello che forma la sua inferiorità nella vita. L'arte è stata per lui più di una reminiscenza scolastica, come era per Alfonso Nitti, ed egli ha anche scritto un romanzo che gli ha dato qualche fama ma poi, impiegatosi in una società d'assicurazioni, la letteratura non è rimasta in lui che per avvilire l'assicuratore; almeno tanto quanto l'assicuratore ha avvilito il letterato. In politica nulla gli è mancato per una strenua critica dell'ingiustizia sociale, si è anche sentito più volte capace di un'azione eroica per il trionfo del socialismo: l'idea non ha agito che come una reminiscenza perturbatrice. Ha sognato tutte le morali, ma solo per smentirle e non è stato in teoria neppure alieno dalla moralità più stravolta: ha sognato il coraggio e la perversità del superuomo ma, al primo urto della realtà, ha trovato immutati gli oggetti che egli voleva distruggere e la vita lo ha fatto tanto più innocente quanto più impura era la sua immaginazione.
Ma la contraddizione più sconcertante egli l'ha sofferta in amore: imbattutosi in una magnifica popolana che, messa là, come al solito, per far contrasto con lui, non vive che d'istinto, le si avvicina deciso a correre con lei un'avventura facile e bruciante, di quelle che egli ha invidiato tante volte al suo amico, lo scultore Balli, il conquistatore fortunato, l'altro antagonista dagli slanci vitali, che Svevo gli ha messo vicino.
Sbaglia naturalmente i conti con se stesso perché ha bisogno d'idealizzare di continuo l'oggetto del suo amore: la fanciulla si chiama Angiolina, e il Balli, misurandola con uno sguardo fin dalla prima volta che la vede, la chiama Angiolina, anzi Giolona, con le o larghe triestine, il disprezzo stesso fatto suono. Emilio invece da Angiolina arriva ad Angele e ad Ange: la pone insomma sugli altari ma non ci sta troppo, perché, con la più grande naturalezza del mondo, ella gli annuncia che, per possederla, deve concederla prima ad un altro che la deve sposare.
Emilio vuole e disvuole ma il patto è concluso e incomincia la solita altalena: già prima del possesso la realtà continua a buttar fango sull'ideale ma se ogni giorno distrugge l'angelo, ogni giorno egli trova modo di ricostruirlo, e la realtà stessa lo aiuta, perché ogni tanto presenta qualche frattura.
Già Alfonso Nitti era tornato all'illusione, quando tutto era irrevocabilmente finito, per aver sorpreso, o per aver creduto di sorprendere, un inaspettato pallore sul volto di Annetta, incontrata per caso sulla via. Ma per Emilio queste fratture sono le tavole del naufrago: tutto è detto quando si dice che mentre egli si allontana dalla fanciulla che si è dimostrata capace di preferirgli un sudicio ombrellaio, parendogli di aver sentito un suono d'angoscia nell'ultimo addio, s'attacca al debolissimo filo per riaccendere nella lontananza il sogno. Ma il peggio avviene dopo il possesso: come ad Alfonso Nitti, anche a lui il dono supremo non dà gioia, i suoi sensi sono per un momento placati ma gli par subito di aver posseduto la donna che egli odia, non quella che ama. E acquista subito una sfrenata libertà di giudizio di lei: mille indizi gli fanno pensare che la fanciulla abbia recitato una commedia, che ella cioè abbia una ben più lunga e raffinata esperienza d'amore di quanto gli voglia far credere. Analisi e immaginazione sono qui convocati a festa: dai residui che trova in lei, e gli basta magari un gesto, un'inflessione di voce, un idiotismo dialettale, egli ricostruisce con cruda precisione i tradimenti da lei perpetrati con rivali che conosce, o con ignoti di cui intuisce l'indole, il mestiere, il linguaggio. Ma questi miracoli di logica e di osservazione, come al solito, non agiscono per niente sulla sua condotta: ancora e sempre il suo destino è condannato all'inerzia, l'urto gli viene dalle circostanze.
C'è anche in questo romanzo, come nel primo, la malattia mortale di una persona cara, Amalia, la grigia sorella che vive come nell'ombra di lui e porta nel sangue le stesse sue tare che si spegne intossicata dall'etere a cui ha fatto ricorso per rovesciare nel sogno il suo desiderio infelice d'innamorata delusa. Ed ecco che sul letto dell'ammalata lo assalgono i soliti pentimenti, i rimorsi per aver sempre trascurato la poveretta, il solito lavorio del pensiero, cosciente e incosciente, lo porta dove non lo dovrebbe portare: uscito dalla stanza d'Amalia, che è in pieno delirio, mentre sul pianerottolo si appoggia col petto per vedere se salga qualcuno, si curva per vedere più lontano, dimentica la sorella per ricordare che in quella posizione usava aspettare Angiolina e il pensiero è tanto potente che, nello sforzo di spingere sempre più oltre lo sguardo, cerca di vedere, anzichè il soccorso atteso, la figura colorita dell'amante. E peggio gli avviene più tardi: proprio mentre Amalia agonizza, egli non trova difesa da un pensiero perfido, che, come al solito, gli si presenta: in precedenza ha fissato un incontro con Ange e deve andarci per annunciarle la rottura definitiva; non si distoglie dal proposito neppure quando viene a sapere che in quel giorno stesso, proprio mentre egli si struggeva accorgendosi di aver tradito i suoi doveri verso Amalia, ella non aveva lasciato nulla d'intentato per tradirlo col Balli.
A nessun patto vuole rinunciare al colloquio d'addio: risorge in lui il romanziere e, con la sua fantasia, pregusta le parole definitive. Naturalmente, come Alfonso Nitti, avrà cocentissima l'ultima delusione poiché trova la ragazza che, nella sua concitazione febbrile, tradirà la fretta di correre ad un altro appuntamento. Ascolta le sue menzogne e dà inizio alla scena: qualche rapida invettiva, in cui l'umano e il letterario si fondono ma, proprio quando con un atto di energia incredibile in lui riesce a trattenerla afferrandola per le braccia, e sta già per ottenere con la forza che ella si dia da sè, a voce alta, la qualifica che le compete, proprio allora la solita frattura lo tradisce: ha l'impressione che ella stia per cadere e basta questo perché egli allenti la stretta dandole così l'agio di svincolarsi e di fuggire di corsa verso l'avventura che l'attende.
Emilio capisce bene che non saprebbe raggiungerla, tutto quello che può fare è di chinarsi per cercare un sasso e, non trovandone, raccoglie delle pietruzze e gliele scaglia dietro. Il vento le porta ma, arrestate in gran parte dai rami secchi, esse non producono altro che un po' di rumore sproporzionatissimo all'ira che le ha lanciate. Nè potrebbe trovare un simbolo più adeguato della sua esistenza. Un pugno di piccole pietre che non arriva a destinazione, un tenue rumore di cui non si accorge nessuno. E si accorge di aver vissuto come un fantasma, proprio al modo di Alfonso Nitti, al modo del già citato giovin signore del ghetto veneziano: come Alfonso Nitti, come tutti i sognatori del ghetto, anche lui non è mai riuscito a farsi comprendere.
Amalia muore, Angiolina scappa senza che egli riesca a dire nè all'una nè all'altra la parola che vuole. E a lui non è neppur concesso quello che pure fu dato ad Alfonso, non gli è dato cioè di spiegarsi neanche a prezzo della vita. Per fortuna ha anche lui, come Alfonso, le ali tanto diverse da quelle del gabbiano, nelle quali può mettere la testa, evadere nel sogno, eterizzarsi nella metafora, come sua sorella si è eterizzata nella vita. Si costruisce, come le creature di Pirandello, la sua patetica finzione necessaria per non morire. E qui avviene il miracolo, Amalia e Angiolina fondono in una sola persona. poiché l'una è morta e l'altra è irraggiungibile: la realtà ora non può più contrastare l'illusione. Così è, se vi pare, Angiolina conserva inalterata la sua calda bellezza misteriosa, la sua perversione ingenua, la sua finzione sincera, gli assurdi del suo slancio vitale e acquista anche le qualità di Amalia che muore una seconda volta per rivivere in lei. Giolona pensa e piange, così il dissidio che pareva invincibile è vinto, il ponte è gettato, le qualità d'Amalia sono anche quelle di Emilio, della stirpe, che si riassumono in una sola: la pensosa melanconia d'Israele
Zeno Cosini, la terza incarnazione dell'eroe sveviano, non smentisce le altre due; si direbbe anzi che l'instabilità della vita spirituale si sia in lui in un certo senso accresciuta, la sua coscienza è un fronte mobile continuato. I suoi piani, angelici o demoniaci, sono fatti sempre per restare lettera morta. Anche lui ha la tendenza a correggere la realtà o ad appigliarsi alla minima frattura di essa per far dei sogni: quelli stessi che sono inerti e che rendono inerti; in ogni modo gli è difficile fermarsi quando è in cammino e muoversi quando si è fermato. La risolutezza l'ammira solo negli altri. Vivere anche per lui vuol dire essere negato al senso della vita e, naturalmente, anche in lui qualcosa di equivoco c'è nei rapporti con gli altri. Per non essersi spiegato ha perduto colei in cui scorgeva, o credeva di scorgere, la compagna ideale; nè alla moglie nè all'amante ha mai saputo dire la parola definitiva; non l'ha saputa dire a suo padre già vicino alla morte ed è forse per questo che il vecchio, già quasi in stato d'incoscienza, ha alzato con uno sforzo supremo la mano lasciandola cadere sulla guancia del figlio: voleva avere almeno una volta un modo per comunicare con lui.
Parrebbe quindi astrattamente condannato alla stessa sorte di Emilio e di Alfonso, invece nel suo destino c'è uno sbalzo, come ce n'è uno nella sua anima: la verità è che Svevo, a poco più di sessant'anni, ha sentito il bisogno di umorizzare i tormenti che aveva dato alle sue due creature, il suo proprio tormento segreto.
Certo è che Zeno ci appare come lo specchio ironico del suoi predecessori: pare che egli faccia alleanza con le tare ereditate da Emilio e da Alfonso, per averne ragione. Secondo la classica definizione che Freud dà dell'umorismo, Zeno ritira l'accento psichico al suo io per riportarlo all'io superiore che vive in lui. Questo umorismo, la cui origine non è difficile da trovare, è come una ricca vena che percorre tutta la vicenda dell'eroe. Del senno del prima e del poi, così pieno di sinistre conseguenze per gli altri due, egli ride e incita a farlo. Il pentimento domanda poco per diventare parodia: egli trova giusto infatti il pentirsi di due cose fra loro contrarie e cita quel tal filosofo greco che presagiva penitente tanto lo scapolo quanto l'ammogliato. E umoristica diventa anche la classica irresolutezza dei due predecessori: volendo prendere moglie, fa in una sera stessa, con tutta serietà, tre diverse proposte matrimoniali a tre sorelle, le tre A di casa Malfenti, Ada, Alberta e Augusta, passando da una donna all'altra con la stessa disinvoltura con la quale, negli studi universitari, è passato dall'una all'altra facoltà. Lo stesso fa negli affari e in ogni attività della sua esistenza.
E quella disarmonia tra il proposito e l'atto finisce con l'assumere il tono della canzonatura, si ripete ad ogni tratto quello che gli occorre per il suo morboso vizio del fumo e ad un certo punto il suo proposito di non fumare si cambia in una droga saporosa del fumare: ed egli passa da sigaretta a proposito e da proposito a sigaretta e per gli amici diventa l'uomo dell'ultima sigaretta.
Manca addirittura poco che egli non ne tragga cagione di vanto ma quel che si dice dell'ultima sigaretta può anche dirsi dell'ultimo tradimento. E, in verità, egli passa con la stessa disinvoltura dai propositi di fedeltà all'infedeltà di fatto e, quando è infedele, in virtù d'incredibili compromessi, di restrizioni favolose, di casi ingegnosissimi, trova modo di purificare l'impuro, tanto che gli pare di non far torto alla moglie neppure nel momento in cui è tra le braccia dell'amica. E naturalmente umorizza lo stesso disordine della sua anima corrosa: Emilio Brentani, quando su quel tal pianerottolo, come si è visto, all'immagine della sorella morente sostituiva a tradimento la colorita figura dell'amica, si rizzava di lì nauseato, Zeno invece lascia con ogni tranquillità che l'inconscio si sovrapponga alla coscienza e non si scompone affatto quando, volendo seguire il feretro di un amico che forse nel suo subconscio odiava, sbaglia funerale. E allora si capisce anche perché egli finisca col burlarsi della cura psicanalitica a cui il medico l'ha sottoposto, come un soggetto Freudiano che supera Freud.
La verità è che ad ogni tratto pare che l'io superiore gli sussurri: il mondo non è che un gioco, trattalo conte si merita. E Zeno gli dà ascolto.
Forse, poiché la fortuna ama gli inetti, più sbaglia meglio è: gli è consigliata la vendita di certe sue azioni dal suocero, avvedutissimo uomo d'affari, ma, per la sua solita inerzia, per più giorni indugia a trasmettere l'ordine al suo agente e nel frattempo le azioni salgono, sì che egli realizza un utile cospicuo. Ancora per errore, si lascia sfuggire delle tre sorelle la vagheggiatissima Ada, e sposa invece Augusta verso la quale, anche per ripugnanza fisica, si era sempre sentito negato. Tutto va come se egli avesse agito con socratica saggezza: Augusta la strabica, sarà proprio la sua più grande fortuna.
Sempre in proporzione dei suoi errori crescono i suoi successi. Nella sua avventura extraconiugale i suoi rapporti con la sua amica non potrebbero essere più falsi: egli sbaglia quando se ne vuole liberare e quando la vuole conservare, eppure tutto gli porta giovamento. Nel destreggiarsi tra moglie e amante, non potrebbe essere più ingenuo: ad ogni piè sospinto sfiora lo scandalo ma, ad onta di tutto ciò, riesce a passare in casa sua e dei suoceri per un marito modello, la perla dei generi, il sostegno e il decoro di tutta la famiglia. Intanto intorno a lui i suoi antagonisti, gli istintivi, i disinvolti, i sicuri di se, quelli che negli altri romanzi erano i vincitori, qui sono i vinti e fanno tutti naufragio: Ada, fatta a meraviglia per la vita, non trova sul suo cammino altro che delusioni, fino a che cade in preda del morbo di Basedow che, su quella incantata bellezza, stampa la maschera crudele del grottesco; l'istintivo Guido, quel tal violinista che strappava entusiastici applausi montando sulle spalle di Bach, che lo ha di colpo soppiantato nel cuore di Ada, e che ha conquistato, come per incanto, un'altra fanciulla da cui Zeno è stato respinto, passa di disfatta in disfatta, e soccombe perché troppo fiducioso della vita, troppo sicuro di se.
E lui, indolenzito, zoppicante, malato di tutte le malattie, che tiene in ordine gelosamente cassetti interi di medicinali, finisce col sentirsi guarito e può infischiarsene di tutti i medici e di tutte le cure. La rivalsa non potrebbe essere più piena.
Si è parlato di ottimismo a proposito della Coscienza di Zeno, si è anche parlato di comico. Sì, se si può chiamare comica una concezione che, sopprimendo ogni ordine razionale nel mondo nell'esterno infinito stellato e nell'infinito che è dentro di noi, scopre che l'uomo è stato messo nella vita per sbaglio, che è un giocattolo in mano alle forze sregolate della natura. Di fronte a questo bisogna tentare di beffare la vita che ha perpetrato la sua amara beffa contro di noi. è quello che fa Zeno e, poste ora le cose in questi termini espliciti, è ben difficile che sull'origine di questo cosiffatto umorismo rimanga un dubbio.
Una volta capita l'ispirazione ebraica delle creature di Svevo, si è sulla strada per risolvere il problema della scrittura sveviana perché egli scrive proprio come vivono i suoi eroi: è una scrittura senza storia, come la vita dei suoi personaggi, come la vita degli ebrei dell'esilio e, come a loro viene meno la trasformazione istintiva del pensiero in azione, così allo scrittore viene meno la trasformazione istintiva dei pensieri in parola: di qui l'approssimatività del suo lessico e, qualche volta, persino della sintassi.
Ma Svevo ha fatto di questa sua inferiorità una fortuna poiché il suo personaggio, quanto più ci appare grezzo, nudo, tanto più affabilmente ci rivela se stesso e l'arte di chi l'ha creato. Costui è a lui stretto da un vincolo di oscura, inconfessata solidarietà, senza però che mai questo vincolo perturbi la creazione. Qui l'uomo va d'accordo con l'artista poiché i pudori scontrosi del primo s'incontrano col distacco disincantato, che la grande arte vuole, del secondo verso la sua creatura. Svevo insomma riesce a vedere il suo personaggio sotto un'aura di universalità. In altri termini egli apre e ci fa scoprire, in un momento dell'anima ebraica, un momento dell'anima umana ed è questa, forse, la sua più grande bravura.
Joram Marino - Aprile 1997